Una stretta di mano... una mano stretta

La psicoterapia, di solito "relegata" durante i problemi esistenziali, entra nel mondo della malattia terminale, nel "fine vita", per poter stare meglio anche quando la vita sta finendo.

25 NOV 2015 · Tempo di lettura: min.
Una stretta di mano... una mano stretta

Superando li concetto di "guarigione" e restitutio ad integrum della medicina, la psicoterapia ipnotica va oltre l'impossibile pretesa di combattere la morte e porta la persona a cambiare il modo di percepire la vita nella sua Ultima fase, alleviando i sintomi e scoprendo un nuovo modo di "abitare" il proprio corpo.

Un messaggio whatsapp da una mia collega volontaria del policlinico è forse stata l'attivazione più "rimbalzata" che abbia, ad oggi, ricevuto. Era all'inizio di Luglio… leggo il messaggio :

"*Fabio, ti chiamerà una mia paziente, ha la sorella di una sua carissima amica ricoverata in fase terminale… forse l'ipnosi può aiutarla".

Non è mio interesse affrontare le varie tipologie di "invio" ma questo è uno dei più "comuni invii/attivazione" per chi si occupa di cure palliative: un collega, un amico, qualcuno che ha qualcun altro affetto da una malattia cronica e giunto ormai a quella che l'Organizzazione mondiale della sanità chiama "fine vita" ed inserisce nell'ambito delle Cure Palliative.

La stretta di mano

Di lì a poco ricevetti la telefonata ed organizzai l'incontro, il giorno dopo mi recai presso il reparto di neurologia di un noto ospedale romano per vedere Elena, una ragazza di 26 anni affetta da un tumore al polmone con metastasi ai reni, fegato e cervello. Fui accolto dalla sorella che, sulla porta della stanza, con voce bassa accompagnata da gestualità, mimica ed espressione degli occhi mi dice: "mi raccomando", mi stringe la mano ed esce avendo cura di chiudere la porta lasciandosi sfuggire un profondo sospiro.

Entrando vedo Elena sdraiata sul letto, con una profonda espressione di sofferenza e degli spasmi alla gamba sinistra, i capelli curati ed il viso ricoperto di bolle e pustole (effetti collaterali della radioterapia). Mi guarda, mi chiede con un gesto di avvicinarmi e senza lasciarmi il tempo di presentarmi mi prende la mano, la stringe forte fissandomi intensamente e mi dice:

" mi hanno detto che venivi, non voglio stringerti la mano per salutarti ma tenerla stretta mentre mi aiuti a calmare il dolore.. tenerla stretta perché ho paura!"

Quella "mano stretta" è stato l'inizio del nostro rapporto, base fondamentale su cui costruimmo insieme gli interventi degli incontri successivi. Incontri in cui Elena imparò a ridurre il dolore che la "stringeva alla testa ed al ventre", a "dimenticarsi delle ciocche di capelli che cadevano e del bruciore al viso" ed a "lasciare andare gli attacchi di panico e conati di vomito improvvisi" ..

Elena morì per una emorragia cerebrale cinque settimane dopo… mi informò la sorella mandandomi un messaggio "Elena non c'è più… ha lottato fino alla fine ma, alla fine se n'è andata… infondo sapevamo che sarebbe accaduto…" messaggio a cui, dopo un certo numero di minuti di sconforto/sorpresa/tristezza e strano "sollievo" (che provo ogni volta che vengo avvisato o assisto alla morte di un mio paziente) risposi:

"Si K… lo sapevamo… mi dispiace"; Immediatamente mi rispose *"Grazie, per esserci veramente stato, senza addolcire le cose e senza mentire.. grazie per ave evitato ogni frase di circostanza.. e grazie per avermi risposto in modo così umano senza sciolinare una frase fatta.. l'hai conosciuta e ci credo se dici che ti dispiace".

Questo è solo uno stralcio di esperienza, esperienza che può andare avanti per pagine e che non sarebbero comunque sufficienti a spiegare in modo esauriente il complesso sistema delle cure palliative anche se ristretto all'ambito dell'intervento psicoterapeutico ipnotico.

Psicoterapia e cure palliative

Mentre nella medicina "tradizionale" si parla, a volte con pretesa, di "restitutio ad integrum", nella dimensione della malattia grave e del fine vita si fa strada e riempie di dignità la "cura", declinandosi come assunzione di responsabilità, come un "prendersi cura"; non più un estenuante battaglia per garantire una sopravvivenza a costo della vita, a un nuovo scenario, ben diverso, in cui il protagonista diviene la relazione e la natura della dimensione terapeutica: il processo in itinere e la relazione stessa.

Anche nella pratica psicoterapeutica, l'ambito delle cure palliative diviene un laboratorio in cui evolversi dalla mitologia dei "fatti" e prove di efficacia per riscoprire la propria vocazione di ascolto, accoglimento della sofferenza ed utilizzazione delle risorse (spesso povere) a disposizione.

La situazione stessa della malattia grave e del fine vita costringe e spinge, attraverso tutte le sue componenti (la condizione patologica, la gravità della malattia, i sintomi invalidanti, la pressione psicologica della prognosi, gli effetti collaterali delle cure mediche, la varietà e pluralità dei soggetti coinvolti oltre il paziente, i familiari, gli amici, gli operatori, la particolarità dei luoghi come la casa, l'hospice o l'ospedale, i tempi e molto altro) lo psicoterapeuta ad un ripensamento della teoria e della pratica psicoterapeutica e obbligano alla ricerca di nuovi strumenti.

Da un lato si tratta di rinunciare ad un approccio teorico che sia orientato alla ricerca delle "cause prime" del disagio o che subisca il fascino delle istanze riparatorie, dall'altra è necessario confrontarsi con le specificità della condizione della malattia grave e questo significa, ad esempio, confrontarsi con la centralità della dimensione corporea e la potenza della sintomatologia fisica nel modulare le funzioni psichiche: il tempo della malattia infrange le abituali forme in cui e con cui il soggetto organizza la propria esperienza di sé nel mondo; la terapia diviene quindi il luogo del "darsi" un corpo, un corpo diverso che si integra con la malattia creando nuove forme di pensabilità e vivibilità spinte dalla contingenza.

Ricordo bene la prima volta che mi trovai ad intervenire su una persona in fine vita… per quanto conoscessi la teoria e le possibili tecniche ericksoniane mi chiesi:

Come faccio ad intervenire se il dolore che prova questa persona è talmente acuto da inondare ogni suo pensiero? Cosa posso fare di utile?

Ma nella malattia grave vi è un altro fattore importante: il tempo! Il malato terminale è posto di fronte ad un limite temporale non più solo immaginario ma concreto e (spesso) molto vicino; questo porta a dover rinunciare ad un approccio narrativo/ricostruttivo e lascia spazio solo ad un lavoro esplorativo del "qui e ora" con un taglio assolutamente esperienziale, una "archieologia del presente" [2] (Rasnik, 2006); un presente che spesso però arido, sconfortante e doloroso a causa dei sintomi e dall'angoscia della morte. In questo presente l'intervento terapeutico deve creare una dilatazione dei confini facendo riconoscere alla persona che la nostra vitalità non può prescindere dalla dimensione immaginaria, dalla ricerca dell'altro e dal bisogno di andare oltre il contingente.

La dimensione corporea

L'attenzione della psicoterapia nelle cure palliative e di malattia grave deve essere innanzi tutto indirizzata su una dimensione corporea: i sintomi (dolore, febbre, nausea, difficoltà a camminare o stare in piedi, spossatezza etc) e le conseguenze delle cure (farmaci, interventi chirurgici) rendono il paziente estremamente concentrato sino ad essere "vittima" del suo corpo.

Come può la psicoterapia attenuare l'intensità del sintomo che satura lo spazio mentale e fisico del paziente?

Come fare per aiutare il paziente a trovare un nuovo modo di "abitare" se stessi, questo corpo imprigionato ed inaffidabile che non è più vissuto come una "base sicura e costante dell'essere" ma fonte di nutrimento per l'angoscia, l'odio ed il terrore della morte sostenuto dal paradigma medico dominante della "cura che guarisce" ed è in questo contesto che la psicoterapia può/deve intervenire nel tentativo di trovare nuove strade per allargare il campo, l'esistenza; per riconoscere nella malattia, anche nella malattia mortale, un modo di esplorare e vivere, in modo diverso, ma vivere anche il proprio corpo!

Ecco che l'intervento psicoterapeutico può creare nuove corrispondenze significative che permettano di dare senso all'evento e contenere allo stesso tempo le sensazioni perturbanti, le ambivalenti emozioni e ridurre l'angoscia rappresentando un'occasione per aiutare il paziente a sperimentare un nuovo modo di percepire e vivere la corporeità, un modo per ascoltare e accompagnare invece di lottare e combattere o evitare e negare.

Che si usi l'ipnosi, le tecniche immaginative o interventi centrati sulla corporeità lo scopo è aiutare il paziente a utilizzare la mente per registrare, elaborare e rappresentare ovvero per tradurre in esperienza ogni cosa con cui ci si confronta. Favorire la consapevolezza e l'esperienza della dinamicità dell'esistenza stessa. Ci sarebbe ancora molto da dire, sul dove (a domicilio, in ospedale, in hospice); sul quando/quanto (non si può usare lo schema tradizionale "una volta a settimana per un'ora", il tempo è poco è va usato bene) .... Lascerò la possibilità a chi desidera di commentare ed aggiungere...

1) Nel rispetto della provaci è stato usato un nome di fantasia

2)Rasnik 2006

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Scritto da

Dott. Fabio Glielmi

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