Il rischio e la paura del crollo

"La vita è un processo in cui si deve costantemente scegliere tra la sicurezza e il rischio. Scegli di crescere almeno dieci volte al giorno". (Abraham Maslow)

20 SET 2021 · Tempo di lettura: min.
Il rischio e la paura del crollo

"La vita è un processo in cui si deve costantemente scegliere tra la sicurezza (per paura e per il bisogno di difendersi) e il rischio (per progredire e crescere). Scegli di crescere almeno dieci volte al giorno". (Abraham Maslow).

Donald Winnicott, pediatra e psicoanalista britannico, partendo dalle sue esperienze cliniche e dal racconto dei suoi pazienti, si sofferma su una particolare paura che questi ultimi sperimentano durante il trattamento: la paura del crollo.

Lo studioso afferma che non tutti i pazienti che hanno questa paura la palesano all'inizio del trattamento: "Alcuni hanno organizzato così bene le proprie difese che tale paura comincia a venire alla luce come fattore dominante soltanto dopo che il trattamento ha fatto considerevoli progressi".

Lo studioso prima di analizzare tale fenomeno, prova a dare una definizione di tale paura e scrive che nel suo complesso la parola può essere intesa come un fallimento di un'organizzazione di difesa.

Partendo da tali assunti, vorrei fare qualche passo indietro, partendo dalle motivazioni, dalle emozioni e dalle aspettative che spingono una persona a "chiedere aiuto". Nello specifico vorrei fare riferimento alla terapia familiare, in cui la paura del crollo potrebbe presentare più complessità dal momento che entrano in gioco più persone.

Perché si chiede aiuto? Quando si chiede aiuto? Probabilmente quando vengono a cadere e, quindi, a crollare alcuni punti saldi o solo apparentemente tali, nella vita di un individuo o di un intero nucleo familiare. Oppure quando le "difese", di cui parla Winnicott, risultano essere deleterie per sé e per gli altri al punto da risultare necessario riorganizzarle. Farlo significa "spogliarsi", "crollare", mettere in dubbio tutto ciò che fino a quel momento, il sintomo, riusciva a contenere.

In una terapia familiare, ad esempio, in cui ritroviamo il cosiddetto "paziente designato" a crollare non sarà solo lui ma anche il resto della famiglia che probabilmente, a sua volta e rispetto al sintomo, ha eretto difese che non hanno fatto altro che creare ancora più distanza, solo per la paura di crollare e di riconoscere che a non funzionare potrebbe essere stato l'intero sistema familiare. Un esempio potrebbe essere il comportamento di un genitore, che di fronte alla tossicodipendenza del figlio continua a ripetersi che è inspiegabile essere arrivati "a quel punto" se nulla gli è mai mancato!

E quindi, quando si decide di andare in terapia? Quando si è pronti a mettersi a nudo, a rischiare. Si, perché il rischio e la paura del crollo sono direttamente interconnessi tra di loro, soprattutto in questo contesto. Andare in terapia significa rischiare e vincere la paura di crollare, abbattendo quelle difese che ci hanno "tenuto in vita" fino a quel momento, e reinventarsi!

Il rischio quindi, è quello di mettersi in gioco, ma si potrebbero elencare altri rischi insiti in un percorso terapeutico a stampo familiare. Ad esempio potrebbe accadere che non tutti siano disposti a "giocare", che non si riesca a creare quella che Winnicott definisce "alleanza terapeutica". Ed ecco che si potrebbe correre il rischio di ritornare alla "base sicura", ossia a quelle difese "disfunzionali" che siamo soliti chiamare SINTOMO. Insomma meglio mettersi al riparo!

Facendo ciò però, non solo si rinuncia alla conoscenza di se stessi e degli altri ma anche a un qualcosa che l'essere umano tanto teme, ossia il cambiamento.

Lewin chiariva che il cambiamento è la chiave della conoscenza. Comprendere, conoscere il "non detto", il "non vissuto" per provare a cambiare. Ma cambiare significa anche mettere in dubbio se stessi, il proprio punto di vista, il proprio modo di essere, significa correre il rischio di mettersi in gioco. E non si tratta di affinare una consapevolezza che per certi versi può sembrare ovvia, ma significa incamminarsi verso un percorso che a tratti può sembrare ignoto, incomprensibile, il più delle volte destabilizza, fa star male e il cui finale è incerto. È come se si avesse paura di avere paura. Non del cambiamento in se ma dei processi, in questo caso, terapeutici, che provano a far sì che quel cambiamento avvenga.

Ma quanto a quella madre che cerca in tutti i modi di deresponsabilizzarsi, è pronta a rischiare, ad abbattere le sue difese e a cambiare? Quanto quel figlio è realmente pronto a fare i conti con i suoi vissuti, le sue emozioni tanto da consentirgli di uscire da una dipendenza che lo rende schiavo e non "libero"?

Credo che sia in questa fase che entra in gioco la figura del terapeuta. Ma come?

Per rispondere vorrei concludere riportando le parole di Salvador Minuchin, psicoterapeuta argentino noto per aver sviluppato la terapia familiare. Il suo pensiero credo che spieghi in maniera sottile ed egregia lo scopo di un'efficace terapia familiare, ossia il lavoro che svolgono paziente e terapeuta.

"...in tutte le culture la famiglia imprime un senso d'identità nei suoi membri. C'è una canzone che merita di essere cantata nella nostra cultura: la canzone dei ritmi delle relazioni umane, la canzone delle persone che nel legame con gli altri si arricchiscono e crescono. Spesso il rumore e il frastuono della vita quotidiana smorzano le armonie che rendono possibile la vita insieme, le melodie dell'adattamento reciproco e della solidarietà che sono il cemento delle interazioni fra gli esseri umani...ma questa pratica della collaborazione ha bisogno di essere sottolineata con maggior forza, poiché noi tutti tendiamo, di solito, a cogliere le differenze e i conflitti. Ci soffermiamo sugli inceppamenti, sulle difficoltà che irrigidiscono e limitano e non prestiamo sufficiente attenzione ai meccanismi che rendono possibile la vita familiare, a quelle armonie che tanto spesso diamo per scontate. Eppure tutte le famiglie sono attraversate da queste correnti di cooperazione, che sono una componente essenziale di quel che noi viviamo e sperimentiamo come il sé della famiglia…".

Dott.ssa Giulia Pepe

 

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Scritto da

Dott.ssa Pepe Giulia

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Bibliografia

  • Salvador Minuchin "Famiglie e Terapia della famiglia". Astrolabio Editore, Roma.
  • S. Cirillo, R. Berrini, G. Cambiaso, R. Mazza "La famiglia del tossicodipendente". Raffaello Cortina Editore, Milano.

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