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24 GEN 2022
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Buongiorno. Gli interventi che lei descrive nel suo messaggio non sono interventi da "psicoterapia classica". Quel che lei racconta, anzi, sembrerebbe deontologicamente perlomeno discutibile. D'altra parte, chiedere qui quale terapia possa essere più adatta a lei, sarebbe come chiedere ad una platea di 10 osti quale sia il vino migliore: ciascuno risponderà che il vino migliore è il proprio (ed io non faccio certo eccezione). Sono uno psicoanalista “classico”, sono socio della Società Psicoanalitica Italiana (S.P.I.), riguardo alla quale può reperire utili informazione al sito internet spiweb.it. Ovviamente ritengo che il vino migliore sia quello psicoanalitico ed ora, se avrà la pazienza di leggere fino in fondo, vorrei spiegarle perché lo penso.
Spesso, comprensibilmente, i pazienti partono dal presupposto che, come in medicina, a sintomi diversi corrispondano specialisti diversi. In effetti in medicina (intendo nella medicina “ufficiale”, quella validata dalla comunità scientifica internazionale) c’è un modello condiviso del funzionamento del corpo umano, quindi è naturale che a sintomi diversi (mal di ginocchio, mal di denti, ecc.) corrispondano specialisti diversi (ortopedico, dentista, ecc.). Il problema è che la scientificità della psicoterapia non è paragonabile a quella della medicina e quindi questa aspettativa sulle “specializzazioni” è destinata ad andare delusa. In psicoterapia infatti, non esiste una teoria del funzionamento della mente umana che sia unica, validata e condivisa dalla stragrande maggioranza della comunità degli psicoterapeuti. Al contrario, i principali orientamenti psicoterapeutici partono da presupposti anche molto diversi fra loro, ed arrivano quindi a proporre, PER LO STESSO SINTOMO, modalità di trattamento molto diverse. L’esempio più classico è quello che confronta il modello psicoanalitico col modello cognitivo-comportamentale. Gli psicoanalisti teorizzano l’esistenza di una mente inconscia accanto a quella cosciente, quindi, se ad es. io ho paura dei cani, per superare davvero e profondamente questa paura dovrei, attraverso l’analisi, arrivare a comprendere i collegamenti e le causalità inconsce che stanno all’origine della paura stessa. Per l’approccio comportamentistico, invece, la questione della mente e dell’inconscio è paragonabile ad una sorta di “scatola nera” che non si può aprire e non si può conoscere in alcun modo. Molto più utile, dicono loro, studiare e lavorare sulla correlazione tra stimoli che la persona riceve dall’esterno e risposte osservabili che la persona dà a quegli stimoli. Non è necessario tirare in ballo, come fanno gli psicoanalisti, la mamma, il papà, l’infanzia, i sogni… Semplificando, se il paziente di cui sopra ha paura dei cani, io terapeuta comportamentista, attraverso un percorso graduale, comincerò a parlargli dei cani, a farglieli conoscere meglio cognitivamente, poi passerò a mostrargli fotografie e filmati di cani, più avanti magari porterò un cane in seduta e piano piano, attraverso la mia mediazione terapeutica, farò avvicinare il mio paziente al cane, arrivando a farglielo toccare ed accarezzare, a farlo giocare con il cane insieme a me terapeuta, ecc. Alla fine del processo il mio paziente sentirà di aver superato la paura dei cani.
Quindi, a parità di dignità teorico-clinica (ad oggi non esiste un orientamento più “vincente” di un altro), la scelta di un terapeuta piuttosto che l’altro può essere “obiettiva”? Secondo me no, è un fatto soggettivo. In un certo senso è una questione di gusti, anche se di solito il paziente medio non sa nulla di queste diversità di metodo psicoterapeutico e, giustamente, si rivolge a caso a chi gli capita, vuoi perché raccomandato da un conoscente, vuoi perché (o tempora…) il terapeuta è più visibile sui social media. Di solito sulla scelta influiscono pesantemente fattori contingenti ed esterni che dovrebbero essere secondari ma che sono sempre più decisivi: durata prevista della terapia, costo in denaro, frequenza delle sedute settimanali.
Visto però che lei è tra i pochi che si pongono la questione della scelta dell’approccio psicoterapeutico, vorrei suggerirle un criterio a mio parere fondamentale. Anche qui c’è un preambolo. Gli psico- (psicologi, psichiatri, psicoterapeuti, psicoanalisti, ecc.), e più in generale chi faccia delle professioni “di aiuto” (medico, infermiere, OSS, educatore professionale, assistente sociale, ecc.) sono da considerare personalità complesse e problematiche. Psicoanaliticamente parlando, scegliere di “aiutare gli altri” deriva da una necessità (a volte inconscia, altre volte cosciente al soggetto stesso) di aiutare se stessi, di curare e riparare la propria storia di vita e le proprie sofferenze individuali. Non a caso si parla di “professioni riparative” (ma lo stesso discorso potrebbe essere fatto anche per una non-professione come il volontariato). Da ciò, sempre in un’ottica psicoanalitica, deriva la necessita che il terapeuta, prima di essere terapeuta, sia stato paziente, abbia fatto una psicoterapia o una psicoanalisi personale che lo abbia reso una persona in qualche modo “risolta” e “riparata”. Come potrei occuparmi dei problemi degli altri se fossi ancora immerso nei miei problemi personali? Inoltre, fare esperienza, come paziente, del processo di cambiamento interiore, conferisce al futuro terapeuta una marcia in più rispetto a chi non ha mai sofferto: attraversando il fiume della mia sofferenza e arrivando sull’altra riva ho appreso (non tanto cognitivamente quanto affettivamente) come funziona il processo della “guarigione” In questo modo, diceva Freud, si trasformano le difficoltà originarie dello psicoanalista in vantaggi nella comprensione dei futuri pazienti. Un’ultima considerazione a sostegno della tesi della necessità di psicoterapia per i futuri psicoterapeuti, risiede nel fatto che lo strumento di lavoro dello psicoanalista sia la propria mente (ed il proprio inconscio), quindi, se non la “tarassimo” per bene rischieremmo di attribuire al nostro paziente questioni ed emozioni che magari sono nostre, facendo una gran confusione e non essendo d’aiuto alla persona che abbiamo davanti. Il chirurgo ortopedico che opera il menisco non è necessario che abbia prima avuto un intervento al proprio menisco. Per lo psicoterapeuta non è così.
In conclusione, la invito a sondare direttamente con il suo futuro terapeuta, non solo il tipo di metodo che egli utilizzerà, ma soprattutto se nel suo percorso formativo ci sia stata una psicoanalisi o una psicoterapia personale, di che tipo sia stata, quanto sia durata e che frequenza settimanale abbiano avuto le sedute. Più a lungo e più intensamente un terapeuta è stato analizzato, con più fiducia un paziente può mettersi nelle sue mani.