Perché quando facciamo finta che vada tutto bene arrivano gli attacchi di panico
Cosa succede quando arriva un attacco di panico?Stiamo facendo finta di non sentire emozioni che ci parlano.
"Se piango do fastidio". Mi colpisce come una secchiata d'acqua fredda questa frase di Carla, donna sulla cinquantina che parla del rapporto con il marito con cui è sposata da molti anni. Carla mi contatta perché un violento attacco di panico l'ha messa in allarme. Quando i medici del pronto soccorso le hanno diagnosticato l'attacco di panico (come spesso capita, lei pensava che stesse per avere un infarto), la donna è rimasta stupita visto che, diceva, "nella mia vita non era successo nulla di particolare in quel periodo".
Gli attacchi di panico sono così: arrivano all'improvviso senza un motivo apparente. In realtà i motivi ci sono eccome, solo che per tanto tempo li abbiamo messi da parte.
Quale relazione tra emozioni e attacchi di panico?
Diciamo, in breve, che un attacco di panico può essere considerato come la conseguenza dell'aver ignorato a lungo una serie di malesseri emotivi. Un po' come se fosse il modo che il nostro sistema emotivo ha per dire: "mi stai a sentire? Ora ti mando un segnale che non puoi ignorare!".
Andiamo però per gradi e cerchiamo di mettere a fuoco come mai arriviamo a star male fino a questo punto.
- Le emozioni funzionano come luci di segnalazione: il ruolo delle emozioni è quello di segnalarci quando un bisogno è soddisfatto e quando invece non lo è. Pensateci bene, quando siete sereni e felici è perché i vostri bisogni (ad esempio di amore, soddisfazione, realizzazione, pace ecc…) sono soddisfatti. Quando invece siete irritati, arrabbiati, tristi, insofferenti ecc. è perché uno o più dei vostri bisogni non sono soddisfatti. Le emozioni servono per indicarci questo. Luce verde (gioia, serenità, allegria ecc) uguale bisogno soddisfatto; luce rossa (rabbia, paura, tristezza ecc..) uguale bisogno insoddisfatto. Funziona così perché i segnali emotivi che ci indicano la soddisfazione o meno di un bisogno, servono da "trampolino di lancio" per agire al fine di soddisfare un bisogno. Pensateci: sono arrabbiata combatto o scappo per rimuovere la fonte di rabbia, sono triste, piango (comportamento che attira l'altro per prendersi cura di me) o mi chiudo per "rimettere insieme i pezzi"; sono insoddisfatta faccio qualcosa per essere soddisfatta ecc.
- Se le luci di segnalazione si accendono ma facciamo finta di non vederle è un guaio: purtroppo a volte per adattarsi alle situazioni, mettiamo in secondo piano i nostri bisogni e ignoriamo i segnali emotivi che ci indicano tale insoddisfazione. Questo può accadere per mille motivi. Nella mia esperienza, come anche nel caso di Carla, le persone si adattano a situazioni che non le fanno stare bene per paura di perdere qualcosa ("se mi arrabbio con mio marito lui alzerà la voce e io non sono capace di ribattere"; "se dico che questa cosa non mi sta bene lui mi pianterà il muso e non potrei tollerarlo"; "sono dipendente economicamente da lui, non posso permettermi di lamentarmi" ecc.) oppure perché temono di non saper gestire la situazione o perché hanno imparato che arrabbiarsi è sbagliato, sacrificarsi è giusto e soccombere normale. Purtroppo molte famiglie passano ancora come giusto il modello del sacrificio. Dare più spazio ai bisogni di un'altra persona non è di per sé una cosa sbagliata, la cosa importante è che non sia una regola fissa e che anche i propri bisogni vengano considerati importanti come quelli dell'altro. Carla negli anni aveva imparato a ignorare i segnali emotivi e continuava a dire a se stessa che "andava tutto bene"; se lui non la considerava non doveva lamentarsi, del resto era il suo carattere; se lui prendeva decisioni senza neanche interpellarla, era stupido rimanerci male, del resto lei non era brava nelle decisioni. Questi sono solo alcuni esempi di come Carla avesse cercato di dire a se stessa che andava tutto bene quando in realtà si sentiva sola, frustrata e infelice in quel matrimonio.
- Quando le emozioni sono tabù, le persone si allontanano: Carla sapeva che se piangeva, il marito non solo non la avrebbe consolata ma si sarebbe irritato; più volte infatti le aveva ordinato di non piangere. Anche i tre figli avevano imparato a non lasciar trasparire alcuna emozione forte e se qualcuno osava farlo, suscitava la chiusura degli altri che si mostravano spesso poco disponibili ad accogliere un'emozione forte qualsiasi. La tristezza di fronte ai lutti spesso veniva gestita con frasi del tipo: "piangere non serve" oppure: "la nonna non sarebbe felice di vederti piangere". Inibire l'espressione emotiva è un altro modo che ci fa accumulare tensione e malessere.
Come se ne esce?
Iniziamo con una verità scomoda ma con cui è necessario fare i conti: essere felici in un contesto in cui non ci si sente felici non è possibile. Sembra banale e ovvio, ma spesso le persone nelle consulenze mi portano un messaggio che più o meno suona così: "questo matrimonio non mi rende felice ma non voglio cambiare nulla. Aiutami ad essere felice in questo matrimonio".
Posso scegliere di restare in un matrimonio che non mi soddisfa ma con la consapevolezza che non mi soddisfa. Questo può portarmi a scegliere, ad esempio, di investire di più sul lavoro, in attività esterne ecc., ma non posso chiedere alle mie emozioni di adattarsi a qualcosa che non soddisfa i miei bisogni; non sono programmate per farlo.
Carla ha compreso quanta rabbia avesse represso e quanto il suo guardarsi come una persona incapace di reagire le avesse impedito di ribellarsi. Una volta compreso che la sua rabbia era legittima e che aveva delle risorse personali che poteva usare per ribellarsi, la sua vita è cambiata. Ha iniziato a esprimere la sua opinione al marito dichiarando apertamente quali suoi comportamenti considerasse inaccettabili. Per la prima volta vide suo marito restare in silenzio senza ribattere o alzare la voce. Ha iniziato a sentirsi più sicura iniziando anche a viaggiare e a concedersi attività che le piacevano. In questo momento lei e suo marito si stanno separando ma, contrariamente a quello che pensava, lei non la sta vivendo affatto male; sa che può cavarsela anche senza di lui.
Un modo per evitare di arrivare a punti di non ritorno nelle relazioni è senz'altro quello di non lasciare mai, per nessun motivo, che i bisogni dell'altro schiaccino i nostri. Alla lunga, rinunciare a noi stessi quasi certamente ci porterà malessere. Gli attacchi di panico arrivano perché per troppo tempo abbiamo ignorato noi stessi.
Quando viviamo una relazione chiediamoci sempre:
- Come mi sento in questa relazione?
- Quali sono le emozioni che vivo?
- Quanto mi fa stare bene questa relazione?
- Se non sto bene: quanto ancora posso tollerare questa situazione?
- Quali sono i miei bisogni? Sono soddisfatti?
Se la risposta a quest'ultima domanda è "sì", in quella relazione siamo nel posto giusto, se la risposta però è no, occorre trovare un modo per soddisfarli, altrimenti il rischio è quello che si facciano sentire con modalità forti (attacchi di panico, malattie psicosomatiche).
Le informazioni pubblicate da GuidaPsicologi.it non sostituiscono in nessun caso la relazione tra paziente e professionista. GuidaPsicologi.it non fa apologia di nessun trattamento specifico, prodotto commerciale o servizio.
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Ho trovato molto interessante l’articolo, ma dopo averlo letto faccio fatica a scindere l’attacco di panico dall’insoddisfazione di una relazione. Tuttavia è possibile che la sensazione di instabilità emotiva/panico possa derivare anche da altro, giusto?