Psicologia e Buddismo: come sono correlati?

Psicologia e Buddismo dimostrano di avere delle sorprendi similarità, perchè entrambe desiderano a livello teorico di 'estirpare' dall'uomo tutto ciò che è sofferenza e infelicità.

25 AGO 2024 · Ultima modifica: 3 SET 2024 · Tempo di lettura: min.
Psicologia e Buddismo: come sono correlati?

La psicologia ha il compito di conoscere, investigare e studiare i processi mentali degli individui, in più si propone di osservare e interpretare il comportamento. Ciò che lo psicologo fa, nell'ambito della sua professione è di alleviare la sofferenza dei propri pazienti, utilizzando come strumento principale per entrare in contatto con essi, l'empatia. Ciò a cui tende lo psicologo, da un punto di vista ideale, è l'annientamento della sofferenza e al contempo spingere l'individuo alla ricerca della propria felicità.

Psicologia e Buddismo: che rapporto hanno?

Tale aspetto è innegabilmente legato ai principi e agli obiettivi del buddismo. Non a caso, Alfred Gustav Jung, allievo di Freud, ha tentato di compenetrare e sublimare la sua idea di psicologia con i misticismi orientali. L'obiettivo del buddismo è quello di 'estirpare' la sofferenza da ogni individuo e per poterlo fare ha creato quella che può essere definita un'antica forma di psicologia. Secondo il buddismo, la sofferenza è il risultato di una distorta percezione della realtà, nella quale, ci si percepisce come separati dal mondo e dagli altri, in altre parole, ci si individualizza con l'intento di vedersi come una piccola isola sperduta nell'oceano senza la volontà di collegarsi con la terra ferma.

L'individuo ignora la sua vera natura, nella quale, la realtà psichica dovrebbe trovare corrispondenza in quella esterna, nel qui e subito, invece se ci pensiamo bene, spesso le persone vivono la propria esistenza oscillando tra passato e futuro, inseguendo spesso allucinazioni o agendo attraverso costrutti generati da una mente che ha perso il senso della realtà. Come spiegarsi altrimenti l'insorgere di patologie quali la depressione o l'ansia, dove le persone rimangono legate al proprio passato, sviluppando sensi di colpa, rimorsi o rimpianti oppure vivono nella paura di ciò che di catastrofico potrebbe accadere loro. I principi cardine del buddismo si muovono attorno ad alcuni elementi, quali il controllo della mente, la presenza della realtà, la consapevolezza del cambiamento, il non-attaccamento e la compassione e dedizione verso gli altri.

Come può il Buddismo aiutarci psicologicamente?

Sembra incredibile ma ciascuno di noi nasce con lo status di Buddha, dentro di noi abbiamo tutto ciò che serve per poter essere considerati illuminati fin dalla nascita, perdiamo questa capacità nel corso della nostra crescita fisica e mentale, siamo dei gamberi che si muovono all'indietro che invece di evolversi si abbrutiscono (il Buddha alla sua nascita, nel mito, si pensa che fosse già nato con la capacità di parlare correttamente). La meditazione, che serve a controllare la mente e i pensieri rappresenta un ponte ancestrale per ritrovare la buddità perduta, dove l'individuo ritrova la propria essenza originaria e genuina.

Tale pratica, può essere definita terapeutica, quindi lo psicologo o lo psicoterapeuta non sono dissimili da un maestro che istruisce nell'arte della meditazione (Yogi). Quindi, pervenire ad uno stato di totale assenza di pensiero automatico o se preferito 'pensare di non pensare a niente' può essere considerato come un metodo volto al raggiungimento di un tale stato di consapevolezza di sé, da risultare efficace nella risoluzione autonoma dei propri problemi, poiché ci dotiamo di nuovi strumenti evoluti che prima non possedevamo. Se dobbiamo muoverci all'interno di un luogo sconosciuto, avremo bisogno di una bussola o magari di un navigatore satellitare, bene la meditazione e la psicoterapia, forniscono quegli elementi che ci aiutano a spostarci da un luogo ad un altro fino al raggiungimento del nostro obiettivo.

Avete mai sentito la frase 'nessuno è mai uguale a se stesso?', beh, tutto quello che ci circonda, compreso noi stessi, è impermanente. La nostra vita come quella di chi abbiamo accanto è perennemente mutevole come l'acqua di un fiume che scorre in un flusso continuo. Nasciamo, viviamo, moriamo e lo stesso dicasi per le forme di vita che ci circondano, ma anche lo scorrere della vita è mutevole. Nel corso della nostra esistenza passiamo attraverso vari stadi di evoluzione e involuzione, che ci trasformano in qualcosa che prima non eravamo.

La consapevolezza dello stato delle cose, ci aiuta a liberarci dalla sofferenza legata alla mancata accettazione di questa verità, ma se da un punto di vista razionale, tale rivelazione rappresenta un dato piuttosto scontato e puerile, sotto l'aspetto emotivo, la questione è ben diversa, perché l'essere umano desidera l'immortalità e la cristallizzazione delle situazioni, comprese le relazioni, in quanto è rassicurante sapere che quello che vediamo e viviamo resta esattamente com'è.

Perciò, l'amicizia dura per sempre, così come l'amore e lo stesso dicasi per il negozio di scarpe in città che ci piace tanto. Emotivamente, siamo imprigionati nell'illusione che tutto rimarrà com'è, inutile dire che ci sbagliamo. Le amicizie possono rompersi, gli amori finire e il negozio in città chiudere, anche solo per un mero fatto temporale e la mancata accettazione emotiva di questa realtà conduce l'uomo alla sofferenza. Per liberarsi da questa allucinazione, il buddismo precetta il non-attaccamento alla vita e alle relazioni.

L'attaccamento è qualcosa di assolutamente naturale, è nella natura umana e siamo portati sin da piccoli a mostrarlo sia nei confronti dei genitori che degli oggetti transazionali (i giocattoli). Mamma e papà diventano il nostro rifugio sicuro e il posto dove vogliamo stare, crescendo poi trasferiamo il nostro affetto verso i nostri coetanei o amici, verso un ragazzo o una ragazza etc. Perché quando siamo piccoli, stringiamo forte il nostro orsacchiotto preferito e non vogliamo darlo a nessuno? Perché da adulti soffriamo quando qualcuno ci tradisce o quando s'interrompe bruscamente un rapporto? Tutto questo accade perché risponde a un'esigenza di unicità, desideriamo cioè fondere noi stessi con tutto quello che rappresenta per noi un oggetto buono, con qualcosa di diverso da noi di cui possiamo 'nutrirci' e che non ci faccia sentire soli, qualcosa che possa abbarbicarsi al nostro stesso ego.

Trasferiamo l'idea che abbiamo di un rapporto, di una persona o di un oggetto dentro di noi e quando lo facciamo, diventa parte del nostro stesso essere, è per questo che sentiamo dolore quando la fonte di questa introiezione, improvvisamente, scompare dalla nostra vita, perché subentra la mancata accettazione della separazione di ciò che ormai ci appartiene o che rappresenta ciò che siamo.

Il concetto di non-attaccamento prevede di raggiungere un grado di consapevolezza che permetta di chiarirci come niente e nessuno ci appartenga e che i rapporti rappresentano un punto di passaggio e una transizione che sono parte integrante del flusso vitale dell'individuo, quindi gli elementi che portiamo dentro noi stessi, non costituiscono una fusione ma un'associazione temporanea. In psicologia, l'attaccamento, è visto come un processo inevitabile che anzi è funzionale al processo di crescita dell'individuo e il processo di introiezione/fusione sarà seguito da una ricostruzione del proprio sé dovuta alla perdita dell'oggetto d'amore e tale separazione porterà l'individuo a una forma depressiva di tipo reattivo, in altre parole la separazione dai rapporti conduce l'individuo al lutto, perché si percepisce la perdita come una forma di disintegrazione del proprio sé.

Come può il Buddismo aiutarci psicologicamente?

E' chiaro come in questo caso, psicologia e buddismo abbiano opinioni ben diverse su ciò che ci accade o dovrebbe accaderci, ma per quanto la visione buddista ci insegni il sentiero per evitare la sofferenza, senza di essa in molti casi non potremmo cautelarci e il percorso attraverso la conoscenza delle cose risulterebbe lacunoso. Perché sappiamo che il fuoco brucia? Semplice, perché nel corso della nostra vita abbiamo saggiato il bruciore che consegue nel toccarlo o nell'avvicinarsi a esso, quindi può essere utile approcciarsi alla vita con il giusto piglio empirico senza esagerare, naturalmente. La compassione è un altro elemento importante, che sicuramente è accomunabile sia al buddismo che alla psicologia. Etimologicamente parlando, la compassione (dal latino cum patior, cioè compatio, che significa 'provare emozioni comuni'), è quel desiderio di benevolenza nei confronti degli esseri senzienti che conduce l'individuo a sperimentare su di sé, emozioni che lo accomunano a un'altra persona.

Nel mito della cultura buddista, Siddharta Gautama (cioè il Buddha), figlio di una nobile e ricca famiglia, rimane a lungo imprigionato nell'illusione che la vita sia costellata di felicità, di piacere sfrenato, di agio e ricchezza e privo di qualunque forma di sofferenza e infelicità. Un giorno, curioso di scoprire il mondo, esce dal proprio paradiso di cristallo e incrocia sulla sua strada un vecchio, un malato e un corteo funebre. Egli rimane estremamente colpito da questi incontri e comincia a riflettere sulla natura umana e sulle implicazioni della vita e sperimenta su di sé il significato di sofferenza, miseria e dolore che le persone provano durante il loro cammino vitale.

Ciò che cambierà il suo destino è proprio la capacità che ognuno di noi possiede, cioè quella di riuscire a provare compassione verso gli altri o se preferite di empatizzare con il diverso da noi. Così, Siddharta decide di provare su di sé il significato della sofferenza e si pone come obiettivo di trovare il modo per annichilirla una volta per tutte e di passare tale conoscenza agli uomini affinché se ne liberino. Qui, bisogna aprire una parentesi, perché esistono due versioni distinte su come Siddharta acquisisca tale facoltà, poiché non esiste un solo Buddha nella cultura buddista, ma ne esiste più d'uno.

Mentre il Buddha della cultura ortodossa, estingue completamente da sé qualunque forma di piacere e desiderio terreno, attraverso il raggiungimento di uno stato atarassico, con il quale estirpa l'attaccamento dell'animo, il Buddha eterodosso raggiunge il Nirvana, cioè l'unicità con il mondo, attraverso la sperimentazione della passione che accomuna tutti gli uomini, in altre parole non rifugge dall'attaccamento e dal tormento che ne deriva, ma decide di viverlo in prima persona per conoscerne il significato profondo.

Se ci pensate bene, in psicologia e specialmente in psicoterapia si tenta di utilizzare proprio l'approccio eterodosso buddista. Nessuno mai vi dirà di fuggire da ciò che vi fa soffrire, perché il raggiungimento di uno stato atarassico, attraverso la completa privazione del desiderio, non è funzionale a un processo di crescita in termini di consapevolezza di sé. Il ruolo dello psicoterapeuta, non è quello di allontanarvi dal dolore ma è quello di fornirvi degli strumenti atti a sviluppare strategie funzionali all'elaborazione dello stesso.

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Scritto da

Dott. Massimo Filippini

Bibliografia

  • A. Bonecchi (1992). Psicologia e Buddismo.
  • P. Thera, Jayatilaka (1972). The psychological aspect of Buddhism.

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