Il mito del talento rovina i nostri talenti
La credenza implicita e non messa in discussione del dono, o talento innato, ha delle implicazioni più forti e limitanti di quanto immaginiamo su ciò che possiamo fare e imparare.
Autostima, credenze limitanti e crescita personale.
"Che tu creda di riuscire, oppure no, hai comunque ragione" – Henry Ford
Il talento naturale esiste? Sempre più studi sulle grandi performance dimostrano di no
"Perché le persone sono bravissime nel loro lavoro? Ovunque rivolgiamo lo sguardo – dallo sport alla musica, dalle scienze alla medicina e agli affari – ci imbattiamo sempre in alcuni individui eccezionali che ci stupiscono per ciò che sanno fare e per quanto sono in grado di farlo bene. E quando ci troviamo di fronte a una di queste persone tendiamo naturalmente a pensare che sia nata con qualcosa in più. È così dotato - diciamo - ha un vero dono. Ma è davvero così?".
È la domanda che si fa K. Anders Ericsson, professore americano di psicologia, nell'introduzione del bestseller Numero uno si diventa. L'autore ha studiato per più di trent'anni le performance degli esperti, e le prestazioni eccezionali, in campi come musica, scacchi, medicina e sport.
Quella credenza implicita, non ragionata e non messa in discussione del dono, o talento innato, ha delle implicazioni più forti e limitanti di quanto immaginiamo su ciò che possiamo fare e imparare, e può spesso costituire una "gabbia" per le nostre potenzialità. Ci porta a fare spesso delle semplificazioni terribili sulle nostre abilità, come può essere quella di un ragazzino che si cimenta per la prima volta nella specialità dei 100 metri, ottiene un risultato scarso, e nonostante la passione per lo sport decide che non è fatto per lui e abbandonarlo, invece di mettere in programma tutto l'allenamento che serve per migliorare i propri risultati.
Tale credenza è molto radicata nel senso comune, e può riguardare i campi più diversi e che toccano tutti, come il lavoro, la cucina, l'uso delle tecnologie, lo studio, etc.
Ericsson e altri ricercatori hanno studiato le prestazioni delle persone esperte e dei grandi performer e non sono mai riusciti a trovare un grande esecutore o esperto che si sia cimentato poco nella sua materia o campo prima di essere tale. Anzi, spesso studiando la biografia di alcuni di essi si è notato piuttosto come all'inizio fossero scarsi nelle loro performance, e non si sarebbe quindi potuto dire, osservandoli, che erano "portati".
Un esempio interessante può essere quello di uno dei maggiori campioni di pallacanestro, Ray Allen, il migliore tiratore da 3 punti nella storia dell'NBA (National Basketball Association, la maggiore lega professionistica di pallacanestro in Usa). Egli riferì alla giornalista sportiva Jackie MacMullan: "Quando dicono che Dio mi ha donato un tiro in sospensione perfetto, vado su tutte le furie e ribatto: non sminuire l'impegno che ci metto ogni giorno. Non un giorno sì e uno no: ogni santo giorno. Chiedete a chiunque sia stato in squadra con me, chiedete chi si allenasse di più…". La giornalista MacMullan, dopo aver parlato con l'allenatore del liceo di Allen, riferì che all'epoca il suo tiro in sospensione non solo non era migliore di quello dei compagni di squadra, ma non gli riusciva granché bene (Ericsson, K.A., libro citato, p. XVIII).
L'infruttuosa ricerca del talento naturale in musica e la teoria delle 10000 ore
Anders Ericsson e i suoi colleghi, in uno studio degli anni '90 nella prestigiosa Accademia Musicale di Berlino, con l'aiuto dei professori divisero i violinisti nei tre gruppi "stelle", "bravissimi" e "bravi". Tutti dichiararono di aver cominciato più o meno alla stessa età, intorno ai 5 anni. Le differenze nelle ore di esercizio erano emerse intorno agli 8 anni. I violinisti del primo gruppo avevano cominciato a suonare più degli altri: da 6 ore a settimana a 9 anni, fino a superare le 30 ore a 20 anni, età in cui i migliori musicisti selezionati avevano accumulato almeno 10000 ore di pratica, quelli del secondo gruppo circa 8000, mentre quelli del terzo meno di 4000.
Le 10000 ore di pratica raggiunta dai migliori esecutori furono osservate anche studiando i pianisti. Da qui la "teoria delle 10000 ore", dopo le quali si dovrebbero raggiungere alti livelli in ogni ambito. Ericsson ha precisato anche, per non rischiare di cadere in semplificazioni, che non bastano 10 o 20 anni di pratica in un campo, e addirittura le prestazioni possono anche peggiorare nel tempo. Ci vuole anche un metodo, quello che ha chiamato "pratica deliberata" o intenzionale, nel quale ci sono continui obiettivi di miglioramento e monitoraggio continuo sui propri progressi.
Il sociologo Malcolm Gladwell ha notato che la cosa che colpisce di più dello studio di Ericsson e colleghi è che nessuno di loro riuscì a trovare un solo musicista "dotato per natura", giunto cioè ai massimi livelli di performance esercitandosi solo per una porzione di tempo rispetto agli altri (Gladwell M., 2014).
Ericsson sostiene in effetti che un dono c'è, e che lo possediamo tutti, ed è la straordinaria capacità del corpo di adattarsi in base all'allenamento e del sistema nervoso di modificarsi in seguito ad apprendimento sia nella struttura anatomica che fisiologica, fenomeno che è da alcuni decenni sempre più studiato e chiamato plasticità neurale, e che avviene nell'arco di tutta la nostra vita. In un noto studio di neuroplasticità di Katherine Woollett e Eleanor A. Maguire, si è trovato che gli aspiranti tassisti londinesi che avevano passato l'esame, dopo un periodo di 3-4 anni di training relativo all'apprendimento a memoria della complessa struttura di 25000 strade della città, avevano un maggiore volume nella materia grigia nella regione posteriore dell'ippocampo rispetto a un gruppo di controllo (non guidatori di taxi).
L'ippocampo è una struttura del cervello molto studiata in correlazione a fenomeni di apprendimento e memoria. La ricerca è stata compiuta attraverso studi di neuroimaging (indagine della materia cerebrale attraverso tecniche di osservazione in vivo, nel caso di questo esperimento scansioni del cervello attraverso risonanza magnetica, effettuate prima e dopo il periodo di apprendimento). Pare che la nuova conformazione divenga più marcata nei tassisti con più anni di lavoro (Woollett & Maguire, Current Biology, 2011).
La falsa credenza sul dono, e il correlato falso mito del talento innato, possono portare a rinunciare prima del tempo a impegnarsi per progredire in un campo perché si è presa la frettolosa decisione che quel campo non è fatto per noi. Questo può nascondere anche altre teorie implicite su di noi e sulla nostra possibilità di apprendere e progredire, oltre che il timore di sbagliare. La rinuncia può essere una delle conseguenze possibili. Ma spesso è prematura, e potrebbe essere superata rivedendo le nostre strategie per gestire la paura di sbagliare e il nostro rapporto con gli errori, ma anche con la fatica e le difficoltà. Lo psicologo sportivo Pietro Trabucchi parla in tal senso di resilienza e di alcune abilità da sviluppare come il saper "incassare" e la tolleranza al disagio (Pietro Trabucchi, Resisto dunque sono).
Angelica Moè, docente di Psicologia della motivazione e delle emozioni all'Università di Padova, fa notare che il ritiro dall'impegno o abbandono può essere dovuto non di rado ad un atteggiamento mentale che porta a sovrastimare il ruolo delle abilità e delle competenze (o della loro mancanza) rispetto a quello dell'applicazione per metterle a frutto e svilupparle. Di conseguenza, se noi attribuiamo troppa importanza alla questione di possedere o no certe abilità, piuttosto che al cercare di capire come farle emergere, possiamo tendere più facilmente a mollare, guidati da cattive e false credenze come "meno uno si impegna più dimostra che è già bravo" (senza fare niente) e "più uno si impegna per riuscire e meno bravo è" (Angelica Moè, Autostima. Cos'è, come si coltiva).
Il mito nelle aziende e nello sport: dalla credenza della selezione del talento alla formazione dei talenti
Lo psicologo sportivo Pietro Trabucchi, nel libro Perseverare è umano, ci mette in guardia sui rischi legati alla credenza nel dono: "Il primo grande demotivatore è il mito del talento, sempre più diffuso nella nostra società". Aggiunge che il mondo sportivo è letteralmente intriso di questa mentalità, tanto che gli organi di informazione tendono a leggere le grandi imprese sportive come effetto del possesso di grandi talenti e non di un impegno straordinario. E anche il mondo del lavoro va spesso in quella direzione:
nelle aziende i responsabili delle risorse umane fanno centinaia di colloqui cercando il "talento", invece che progettare percorsi di crescita. Il "prescelto", che sia davvero talentuoso o meno, finisce comunque per crederci. E quindi, oltre a minimizzare l'impegno, abituato a considerarsi "speciale", alla prima occasione emigra verso nuovi lidi.
Eppure, quando sono gli autori di grandi prestazioni a spiegarle, non fanno tanto riferimento ad abilità innate, ma spesso mettono in rilievo l'impegno e la dedizione all'allenamento (oltre che lo studio del terreno o degli avversari, le strategie di gioco, la programmazione di formazione continua e obiettivi di crescita sul lavoro, etc.), come ad esempio il citato campione di basket Ray Allen. Giusto per citare un altro esempio sportivo, si pensi a uno dei più grandi campioni di tennis di tutti i tempi, Andre Agassi. Nel suo libro autobiografico Open. La mia storia, racconta che a sette anni il suo allenamento tipo era quello di colpire 2500 palline al giorno lanciate da una macchina (il che fa circa 17500 la settimana, un po' meno di un milione all'anno; Agassi A., 2015).
Molti sono portati a sovrastimare l'influenza dei geni rispetto a quella dell'ambiente, del contesto socioculturale, di quello storico e familiare, delle scelte di vita.
Ma quando questo atteggiamento mentale ci porta a colorare ogni nostra caratteristica come geneticamente determinata, esso ci può privare del senso di responsabilità rispetto ad alcune scelte, vivendole passivamente perché crediamo di essere destinati in una certa direzione. Questo "abito mentale" si sposa bene con il mito del talento, che può proteggerci per Trabucchi dallo sforzo di compiere una serie di attività, ma anche impedirci di porci degli obiettivi, il che alla lunga ci danneggia perché limita il nostro campo di possibilità nello sport, nel lavoro e nella vita. Ancora con le parole dell'autore:
"credere ciecamente che il nostro destino sia determinato dalle predisposizioni naturali o dai geni conduce alla passività e alla rassegnazione. Un uso troppo semplicistico e distorto della genetica contribuisce a rinforzare questa mentalità".
In un senso o nell'altro, nelle attività in cui ci cimentiamo, il mito del talento ci può portare al disimpegno. Se crediamo di non possedere tale dono, ciò ci conduce spesso a mollare troppo presto. Se crediamo di possederlo, invece, ciò ci induce a pensare di non doverci impegnare, allenare o continuare a fare formazione più di tanto, con il rischio di creare un danno alla nostra crescita personale e professionale.
Quel che potrebbe essere utile in ogni attività, sport e lavoro, è la curiosità e il desiderio di apprendere e migliorare costantemente, oltre ad implementare efficaci strategie per superare le difficoltà e gestire gli errori, cercando di accettarli ed imparare da essi. Il campione e cultore di arti marziali Bruce Lee diceva: "prendi ciò che ti è utile, e da lì progredisci".
E a volte è utile sbarazzarsi di certe credenze limitanti e scoprire e sperimentare quelle che ci fanno apprendere e progredire di più.
Dott. Giovanni Iacoviello
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